Run for your life
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Anna Keira Wyrd Sviridova
Summer Overture #Prologo
Si sentiva così stanca… Oh,se solo la lampadina si fosse fulminata in quel momento. Anzi,scoppiata in mille pezzi di vetro che sarebbero atterrati proprio sul suo polpaccio destro. Odiava quella luce finta,quell'anonima camera da catalogo,dove l'unica cosa anomala erano lei e lo specchio antico e fuori luogo ormai ovunque,anche in un museo. Altissimo e troppo stretto,così tanto da non lasciar spazio alla sua sagoma di nervi di tela,ossa di cristallo e pelle di bambola. Avrebbe ricominciato a mangiare regolarmente solo quando sarebbe entrata in quello specchio,anche se sapeva che ai suoi occhi questo non sarebbe mai accaduto. 40 chili erano ancora troppi,38 sarebbero stati meglio,anzi 36,sì,36 sarebbe stato il numero perfetto. Ma non aveva più tempo,le restavano solo pochi minuti.
Non voleva più muoversi,il veleno vermiglio colava dalle ferite fresche,ghirigori di polpi che attanagliavano le gambe a partire dalle caviglie fino a metà coscia,le erbacce cremisi immobilizzavano le braccia,erano cominciati come innocenti fiori ma poi si era fatta prendere la mano ed erano degenerati in mostri autotrofi…
Era così facile,bastava una pressione minima… Non riusciva a smettere: la faceva sentire così libera,lontana,leggera.
Il liquido era incandescente,le sembrava di bruciare dentro. Se la camera si fosse incendiata all'improvviso lei non se ne sarebbe accorta,era già all'inferno. Ma rideva,rideva perché aveva in mano un coltello di ceramica,quello dal quale le intimavano di star lontano da bambina perché avrebbe potuto tagliarsi per sbaglio. Non riusciva a smettere di ridere,era un suono grottesco che faceva venire la pelle d'oca alle pareti di cartone e ai soffitti appena stuccati.
Molti si sarebbero chiesti cosa i propri cari avrebbero pensato una volta scoperto il corpo,o le diete assurde,le bilance truccate,le ossa nascoste da maglioni troppo larghi e le cicatrici per le quali incolpavano i malvagi gatti del vicino. Lei no,perché lo sapeva benissimo: erano sottoterra con i vermi,il loro tempo per pensare era scaduto.
Avrebbe voluto essere alta un metro e ottanta,come quei giganteschi ragazzi che giocano a basket,così non ci sarebbe stato spazio per i suoi occhi marini striati di pagliuzze d'oro,gli occhi di una madre morta,una sconosciuta che l'aveva tenuto in grembo e che ormai non ricordava più.
Le mancava il fiato ma non accennava a smettere,ora si trovava tra assurdi frammenti della memoria,era delusa,si aspettava qualcosa di più incisivo di un pallone lanciato da una bambina che scoppiava lasciando fuoriuscire centinaia di caramelle,no,pasticche,rosa e libri bruciati. Non erano nemmeno immagini in alta definizione. Inoltre non era esatto,di pasticca ne aveva provata una sola in tutta la sua vita ed era verde smeraldo. Non le era piaciuta,ma ad Amelie sì.
Si accorse di avere la sua stessa risata e si zittì all'istante.
Amelie,la sua compagna di salvezza e distruzione: per qualche assurdo motivo erano convinte di poter tornare su solo una volta toccato il fondo. Solo che lei non era più riemersa,doveva aver sbagliato i conti.
O forse no,in effetti in quel momento si sentiva sollevare sempre più su tanto da sbattere contro il soffitto,non che fosse difficile con quei soffitti troppo bassi.
Ironia della sorte soffriva di vertigini anche in punto di… morte. Ah,già… La situazione le era sfuggita di mano,ma ormai non aveva più alcuna importanza.
Forse voleva davvero morire.
No,non era vero: semplicemente non voleva più un cazzo.
Non voleva più muoversi,il veleno vermiglio colava dalle ferite fresche,ghirigori di polpi che attanagliavano le gambe a partire dalle caviglie fino a metà coscia,le erbacce cremisi immobilizzavano le braccia,erano cominciati come innocenti fiori ma poi si era fatta prendere la mano ed erano degenerati in mostri autotrofi…
Era così facile,bastava una pressione minima… Non riusciva a smettere: la faceva sentire così libera,lontana,leggera.
Il liquido era incandescente,le sembrava di bruciare dentro. Se la camera si fosse incendiata all'improvviso lei non se ne sarebbe accorta,era già all'inferno. Ma rideva,rideva perché aveva in mano un coltello di ceramica,quello dal quale le intimavano di star lontano da bambina perché avrebbe potuto tagliarsi per sbaglio. Non riusciva a smettere di ridere,era un suono grottesco che faceva venire la pelle d'oca alle pareti di cartone e ai soffitti appena stuccati.
Molti si sarebbero chiesti cosa i propri cari avrebbero pensato una volta scoperto il corpo,o le diete assurde,le bilance truccate,le ossa nascoste da maglioni troppo larghi e le cicatrici per le quali incolpavano i malvagi gatti del vicino. Lei no,perché lo sapeva benissimo: erano sottoterra con i vermi,il loro tempo per pensare era scaduto.
Avrebbe voluto essere alta un metro e ottanta,come quei giganteschi ragazzi che giocano a basket,così non ci sarebbe stato spazio per i suoi occhi marini striati di pagliuzze d'oro,gli occhi di una madre morta,una sconosciuta che l'aveva tenuto in grembo e che ormai non ricordava più.
Le mancava il fiato ma non accennava a smettere,ora si trovava tra assurdi frammenti della memoria,era delusa,si aspettava qualcosa di più incisivo di un pallone lanciato da una bambina che scoppiava lasciando fuoriuscire centinaia di caramelle,no,pasticche,rosa e libri bruciati. Non erano nemmeno immagini in alta definizione. Inoltre non era esatto,di pasticca ne aveva provata una sola in tutta la sua vita ed era verde smeraldo. Non le era piaciuta,ma ad Amelie sì.
Si accorse di avere la sua stessa risata e si zittì all'istante.
Amelie,la sua compagna di salvezza e distruzione: per qualche assurdo motivo erano convinte di poter tornare su solo una volta toccato il fondo. Solo che lei non era più riemersa,doveva aver sbagliato i conti.
O forse no,in effetti in quel momento si sentiva sollevare sempre più su tanto da sbattere contro il soffitto,non che fosse difficile con quei soffitti troppo bassi.
Ironia della sorte soffriva di vertigini anche in punto di… morte. Ah,già… La situazione le era sfuggita di mano,ma ormai non aveva più alcuna importanza.
Forse voleva davvero morire.
No,non era vero: semplicemente non voleva più un cazzo.
Ghost Town #1
Itha guardò con sospetto il contenitore di vernice che le stava di fronte. Quello che al ferramenta avevano spacciato per verde pera si era rivelato un lime elettrico. La sua camera sarebbe diventata una copertina dei Rem in versione fluo. Fantastico.
Si guardò intorno: un obitorio di mobili-cadaveri coperti da teloni di plastica un tempo immacolati,ormai ingialliti dagli anni e macchiati dall'uso. Era troppo tardi per tirarsi indietro. Dopotutto anche se non era la nuance giusta mandava IL messaggio: grinta e ottimismo. Gridava voglia di vivere da tutti i pori.
O di cavarsi via gli occhi. Senza anestesia.
Si lasciò sfuggire un grugnito: diluirlo non sarebbe servito a molto.
Afferrò un pennello e si mise al lavoro con le finestre spalancate e una canzone degli Shiny Toy Guns a tutto volume.
All the boys shout it out loud now,
All the girls screaming out louder,
We don't want to,we don't have to
Live like that!
Sorrise con amarezza pensando a come avrebbe reagito la sua psicologa davanti ad una versione riveduta e corretta dei fatti,le parole "costruttivo","siamo davvero fieri di te","progresso" e "moving on" le riecheggiarono nella mente. Niente di più sbagliato: erano mesi che non faceva un passo avanti. Tante parole complicate per distrarli dalla cruda realtà: i fantasmi erano tornati.
No,niente di supernaturale,per carità. Si trattava di ricordi e sagome sbiadite nascoste nel buio della sua scatola cranica,pronti a riaffiorare per trascinarla nell'abisso. Erano rimaste in attesa,affilandosi le unghie sempre più simili ad artigli.
Ritinteggiare la camera,cominciare uno sport di squadra,uscire con i cosiddetti ragazzi normali… Erano tutte bugie,Kyle,il compagno di laboratorio durante le ore di chimica per il quale si era presa una cotta e che aveva la buffa abitudine di disegnare piccoli baffetti alle "t" e ridere a voce troppo alta non esisteva. E quell'anno facevano anatomia,per ricordare a tutti quanto le proprie ossa fossero insieme forti e fragili,e di come non bisognasse forzare troppo i legamenti durante lo stretching. Cosa che lei puntualmente faceva,come per fare dispetto a quei libri stantii nonostante le pagine bianche e le copertine scintillanti. Dentro avevano solo marcio,carne da macello e muffa.
Lo sport di gruppo? La verità è che di squadre di hockey su prato ne esistevano ben tre,tuttavia lei non ne faceva parte e durante "gli allenamenti" preferiva una corsa in compagnia del suo iPod.
Però un amico ce l'aveva,anzi due e se chiedere aiuto per imbucarsi in una palestra di ginnastica artistica deserta per un allenamento serale clandestino o lasciar chiudere un occhio al cassiere/membro della security (con i tagli al budget gli impiegati del piccolo cinema erano stati ridotti a tre,due considerando che Mme Margaret passava i suoi turni a sonnecchiare placidamente) per entrare gratis ad un matinée comunque privo di spettatori conta come un'uscita,allora la sua vita sociale non era solo parto di invenzioni a fin di bene (di chi? Questo non le era ben chiaro,ma era la scusa insieme meno originale e paradossalmente più efficace per mentire senza sensi di colpa.) La psicologa era felice,sua zia era felice e… lei fingeva di essere felice,con gli alti e bassi di una qualsiasi adolescente della sua età,inventandosi balle su un compito andato male per il quale le dispiaceva,una festa alla quale non sapeva cosa mettersi e litigate con una migliore amica il cui colore di capelli cambiava ad ogni seduta.
Welcome to my life.
Rise,si sentiva presa in giro e più che mai sconfitta. Il suo nome,Itha,significava "guerriera" o qualcosa del genere. Ed era sott'inteso che si trattasse di una guerriera vittoriosa,nessuno nomina la propria progenie con sinonimi di fallimento. Non consciamente almeno.
Ironia della sorte lei le sue battaglie continuava a perderle,o meglio non iniziarle affatto. Certo le avevano tolto le medicine e finalmente il suo flusso di pensieri non era rallentato da una melassa chimica che spegneva le parti del suo cervello come fossero lampadine.
Finalmente si sentiva…. vera,reale. Nonostante la rete di finzione e bugie di cui si circondava,riusciva a rimanere lei,quella strana ragazza scostante dalla risata amara,gli occhi troppo intensi del colore di un mare in tempesta,un corpo slanciato,insieme muscoloso e scheletrico,indeciso tra l'essere forte o debole.
Non era passato poi così tanto tempo da quando si lasciava morire di fame bevendo solo un bicchiere di succo d'arancia al giorno. Non ci volle molto prima che cominciasse a sentirsi troppo stanca per i volteggi e avere le vertigini dopo una,per lei allora semplice,rondata salto all'indietro. Qualche caduta dalla trave e seri rimproveri dell'allenatore più tardi aveva cominciato a controllarsi,forzandosi a mangiare il necessario,o quasi,per poter continuare lo sport. Tuttavia col passare dei mesi era diventato evidente e fu costretta a lasciare la squadra. Non per questo aveva smesso di allenarsi,Ville,la cosa più vicina ad un amico d'infanzia che le era rimasta,le aveva procurato una copia della chiave della palestra comune,sotto solenne giuramento di non esagerare e di mangiare abbastanza.
Peccato che lei avesse tenuto le dita incrociate.
Tuttavia tra le sue condizioni c'era anche un biglietto da cinquanta al mese che le toglieva ogni scrupolo: le sue raccomandazioni erano solo un modo di pararsi il culo con se stesso in caso si fosse rotta l'osso del collo. Per inciso di ossa ne aveva rotte sei,ma era sempre riuscita a ripulire,chiudere e recarsi autonomamente in ospedale. Grazie a un tassista-fattone che non faceva mai troppe domande.
In ogni caso non c'era più ragione di preoccuparsi,aveva superato da sola i suoi problemi col cibo arrivando ad una tregua,autorizzazione dell'allenatore o meno voleva continuare ad allenarsi e stare in equilibrio su dieci centimetri di legno era dannatamente difficile dopo un digiuno di tre giorni.
Grazie al sito della società sportiva riusciva a tener traccia dei nuovi esercizi in modo da poter continuare a seguire il programma a modo suo,anche se con qualche danno collaterale in più,tuttavia incolpando la sua (inesistente o artefatta) goffaggine,non voleva insultare l'intelligenza di infermieri e medici,perciò si dava da fare per inciampare o rovesciare qualcosa ogni tanto,oppure accampando scuse equamente improbabili nonostante,o proprio a causa,dell'eccessivo ricorso alla fantasia. Non aveva mai avuto incidenti domestici nè rovesciato o rotto una caraffa in tutta la sua vita,anche se sotto l'effetto delle medicine ci era andata molto vicino,perciò le riusciva "complicato" entrare nel personaggio.
Ma continuava a farla franca.
Perciò le alternative erano due: o se ne fregavano altamente come tutti gli altri,o portare una parrucca la rendeva una bugiarda migliore. In ogni caso le dava il bonus "pietà" che risparmiava inutili domande e la lasciava andare con fasce,antidolorifici e vuote promesse su come sarebbe stata più attenta in futuro.
In realtà non gliene importava molto,il dolore non la disturbava,le stecche invece si rivelavano una seccatura: fonte di occhiatacce e altre domande durante le sedute settimanali,nonché ovvi impedimenti al movimento.
Era anche fin troppo facile.
Guardò l'orologio: ora di cena,pensò con un sorriso. Sua zia aveva seguito rigorosamente il programma:cibo equilibrato come mezzo per stare insieme,chiacchierate vuote davanti a una cioccolata fumante in attesa che si formasse quella sottile pellicola che praticamente tutto il mondo odia in modo da poterla buttare via con una risata condivisa per mettere fine a quell'incontro forzato tra sconosciute con una nota positiva,pillole e formule magiche,per ben 48 ore. Poi era tornata al suo lavoro,lasciando qualche distratto messaggio scarabocchiato sui post-it (scritti dalla segretaria). Dava,ad entrambe,dei punti per averci provato. Peccato che Emma continuasse a sbagliare i trattini sulle t. Un giorno gliel'avrebbe detto. O forse no.
Tolse i teloni e riordinò la stanza alla bell'e meglio,senza alcuna fretta. Un'ora e un quarto dopo scese le scale per apparecchiare per uno,non per se stessa,e cominciare a lavare i piatti (del pranzo). Non aveva un vero e proprio problema col cibo,almeno non su pianta stabile,ma sentiva il mangiare come un peso,un'attività sgradita,che potendo preferiva evitare. Stava proprio finendo di lavare la pentola quando sentì sbattere la porta d'entrata. "Volevo aspettarti ma avevo troppa fame…" disse con un sorriso finto sano da pubblicità del dentifricio,occhi brillanti e odiose tenere fossette. "Ma ti ho tenuto qualcosa in caldo" aggiunse indicando un piatto palesemente vuoto ma che aveva coperto con un asciugamano per dare il bonus "impegno nel mantenere un minimo di apparenze".
"Davvero? Grazie ma ho già mangiato,vado a letto presto oggi,sono distrutta…" disse distrattamente togliendosi giacca e scarpe,impaziente di dirigersi al piano di sopra e poggiando la ventiquattro ore sul tavolino del soggiorno immacolato. La sentì imboccare le scale e cominciò il conto alla rovescia. Dieci…tre…due…uno.
"Ah,ho ridipinto la stanza oggi." disse con tono casuale (in realtà perfettamente calibrato,nel quotidiano se la cavava meglio con le bugie) a voce abbastanza alta per essere sentita al secondo piano.
Silenzio. Sentì un colpo di tosse,la cicca (quella da masticare,non la sigaretta: aveva smesso di fumare da tre settimane ed era passata dalla dipendenza da nicotina a quella da caramelle alla liquirizia e gomme alla menta,un grande progresso per l'alito,questo è sicuro) doveva esserle andata di traverso. Intravedeva la figura flessuosa della…. sconosciuta? tutrice? zia?…. donna è più neutrale.
…della donna bloccarsi sugli scalini,ne mancavano esattamente quattro per raggiungere il piano superiore,con un piede a mezz'aria.
"Ma… è meraviglioso!" esclamò attonita dopo quasi venti secondi di silenzio stampa. In sua difesa quello era,in tutto e per tutto,un evento eccezionale: fino all'anno prima non aveva nemmeno disfatto i bagagli,tirando fuori solo qualche abito e,ovviamente i suoi body.
Da piccola era nell'assurda convinzione che i suoi genitori sarebbero tornati. In seguito come segno di protesta per averla mandata in collegio,dal quale era riuscita a farsi cacciare in sole sei settimane. Alla fine aveva rinunciato ai suoi tentativi per attirare l'attenzione,si rivelavano nel migliore dei casi infruttuosi e nel peggiore controproducenti. Ma di questo la zia non sapeva nulla fino a quando,in una seduta comune,non se l'era lasciato accidentalmente scappare. Allora non capiva che l'implicita regola era: "fai quello che ti pare,basta che non ti fai beccare".
"Se l'avessi saputo ti avrei aiutata" aggiunse poco convinta.
Come no. "Doveva essere una sorpresa,non preoccuparti. Ho scelto un bel colore acceso." Tradotto in "ora brilla al buio ma è quello che volevate".
"La dottoressa Parker ne sarà molto felice"
"Non ci avevo pensato…beh,lo saprò domani!"
Quasi dieci frasi,il record della settimana. E anche stasera il teatrino poteva chiudere i battenti,orgoglioso della migliorata interpretazione dei protagonisti,migliorati considerevolmente dopo ben centosessantatre repliche.
Guardò l'orologio: le undici e un quarto,avrebbe aspettato altri dieci minuti e poi sarebbe sgattaiolata dalla finestra,tanto per mantenere un minimo di facciata con i vicini e di correttezza per la zia. Un minimo di discrezione era necessario,uscire dalla porta principale a mezzanotte mandava un certo messaggio e avrebbe attirato pessime critiche sulle capacità genitoriali di Harriet.
Mentre una nipote ribelle che decideva di scalare il melograno e darsi alla macchia nel buio era unicamente colpa della sciagurata in questione e non della povera anima pia che l'aveva presa in casa sua.
Rise,in quel quartiere c'era proprio qualcosa che non andava. Forse erano aria e acqua suburbana a bloccare quel luogo congelato nel secolo scorso e convinto che i problemi dovessero essere ignorati e nascosti,facciate da casa delle bambole con dentro la famiglia perfetta: marito adultero,madre isterica,figlia troia e figlio fumatore di erba con l'hobby di tagliarsi i polsi. Tuttavia tutto quel marcio era accuratamente nascosto dietro a pareti écru e giardini curati,chiuso in cassetti nascosti dei tavoli di mogano e ripulito in occasione del barbecue della domenica,o meglio ammassato sotto il tappeto persiano,quello che non si può calpestare perché cimelio di famiglia e che prontamente occupa l'intero soggiorno costringendo i bambini a camminare in punta di piedi lungo il muro per aggirarlo mentre gli ospiti lo calpestano con le scarpe piene di fango,ignari che sotto di loro giace sporcizia di ben altra portata.
La faceva ridere tutta quella pagliacciata,uno spettacolo di casupole tutte uguali e personaggi stereotipati.
Per essere un'ex "clinicamente depressa" rideva e sorrideva moltissimo pensò.
"Clinicamente"… Era una parola a doppio taglio,da una parte ti evitava la classificazione di classica adolescente frignona,dall'altra attestava che avevi davvero un problema. Che tutti di comune accordo avessero deciso che fosse causato unicamente da una carenza di dopamina,un malfunzionamento di qualche ghiandola endocrina dal nome impronunciabile,l'aveva insieme sollevata e sorpresa.
L'avevano etichettato come un problema essenzialmente fisico e la consideravano un misto tra la cuginetta che taglia le code alle lucertole ma con la quale sei obbligato a giocare lo stesso e un'animale incomprensibile ed esotico da osservare,o ignorare,a debita distanza. Ciò contribuiva a rendere la sua vita "sociale" un'insieme contrastante di occhiatacce e timidi sorrisi pieni di pietà,una delle tante,forse troppe,cose che odiava. Si promise che un giorno avrebbe fatto una lista di tutte le cose che per lei meritavano di finire risucchiate in un buco nero.
Ma non in quel momento: c'era un posto in cui doveva assolutamente recarsi.
C'era sempre qualcosa che la faceva uscire da ogni personaggio che volesse interpretare,un difetto in ogni maschera. Come la rapidità di quelle ossa impazienti di trovarsi in un posto più caldo che stonava con l'atteggiamento svogliato e lo sguardo da vacca,inespressivo ed ebete. Ci aveva lavorato per anni,sopprimere quell'anima di fuoco che aveva era difficile ma alla fine ci era riuscita: guardandola il mondo non vedeva che la piatta immagine di una ragazza troppo magra e troppo muscolosa perennemente troppo vestita,anche ad agosto infatti non lasciava trasparire che pochi centimetri di pelle,all'altezza dei deltoidi,malgrado le canotte,infatti,portava lunghissimi guanti aderenti e neri,senza dita.
O di cavarsi via gli occhi. Senza anestesia.
Si lasciò sfuggire un grugnito: diluirlo non sarebbe servito a molto.
Afferrò un pennello e si mise al lavoro con le finestre spalancate e una canzone degli Shiny Toy Guns a tutto volume.
All the boys shout it out loud now,
All the girls screaming out louder,
We don't want to,we don't have to
Live like that!
Sorrise con amarezza pensando a come avrebbe reagito la sua psicologa davanti ad una versione riveduta e corretta dei fatti,le parole "costruttivo","siamo davvero fieri di te","progresso" e "moving on" le riecheggiarono nella mente. Niente di più sbagliato: erano mesi che non faceva un passo avanti. Tante parole complicate per distrarli dalla cruda realtà: i fantasmi erano tornati.
No,niente di supernaturale,per carità. Si trattava di ricordi e sagome sbiadite nascoste nel buio della sua scatola cranica,pronti a riaffiorare per trascinarla nell'abisso. Erano rimaste in attesa,affilandosi le unghie sempre più simili ad artigli.
Ritinteggiare la camera,cominciare uno sport di squadra,uscire con i cosiddetti ragazzi normali… Erano tutte bugie,Kyle,il compagno di laboratorio durante le ore di chimica per il quale si era presa una cotta e che aveva la buffa abitudine di disegnare piccoli baffetti alle "t" e ridere a voce troppo alta non esisteva. E quell'anno facevano anatomia,per ricordare a tutti quanto le proprie ossa fossero insieme forti e fragili,e di come non bisognasse forzare troppo i legamenti durante lo stretching. Cosa che lei puntualmente faceva,come per fare dispetto a quei libri stantii nonostante le pagine bianche e le copertine scintillanti. Dentro avevano solo marcio,carne da macello e muffa.
Lo sport di gruppo? La verità è che di squadre di hockey su prato ne esistevano ben tre,tuttavia lei non ne faceva parte e durante "gli allenamenti" preferiva una corsa in compagnia del suo iPod.
Però un amico ce l'aveva,anzi due e se chiedere aiuto per imbucarsi in una palestra di ginnastica artistica deserta per un allenamento serale clandestino o lasciar chiudere un occhio al cassiere/membro della security (con i tagli al budget gli impiegati del piccolo cinema erano stati ridotti a tre,due considerando che Mme Margaret passava i suoi turni a sonnecchiare placidamente) per entrare gratis ad un matinée comunque privo di spettatori conta come un'uscita,allora la sua vita sociale non era solo parto di invenzioni a fin di bene (di chi? Questo non le era ben chiaro,ma era la scusa insieme meno originale e paradossalmente più efficace per mentire senza sensi di colpa.) La psicologa era felice,sua zia era felice e… lei fingeva di essere felice,con gli alti e bassi di una qualsiasi adolescente della sua età,inventandosi balle su un compito andato male per il quale le dispiaceva,una festa alla quale non sapeva cosa mettersi e litigate con una migliore amica il cui colore di capelli cambiava ad ogni seduta.
Welcome to my life.
Rise,si sentiva presa in giro e più che mai sconfitta. Il suo nome,Itha,significava "guerriera" o qualcosa del genere. Ed era sott'inteso che si trattasse di una guerriera vittoriosa,nessuno nomina la propria progenie con sinonimi di fallimento. Non consciamente almeno.
Ironia della sorte lei le sue battaglie continuava a perderle,o meglio non iniziarle affatto. Certo le avevano tolto le medicine e finalmente il suo flusso di pensieri non era rallentato da una melassa chimica che spegneva le parti del suo cervello come fossero lampadine.
Finalmente si sentiva…. vera,reale. Nonostante la rete di finzione e bugie di cui si circondava,riusciva a rimanere lei,quella strana ragazza scostante dalla risata amara,gli occhi troppo intensi del colore di un mare in tempesta,un corpo slanciato,insieme muscoloso e scheletrico,indeciso tra l'essere forte o debole.
Non era passato poi così tanto tempo da quando si lasciava morire di fame bevendo solo un bicchiere di succo d'arancia al giorno. Non ci volle molto prima che cominciasse a sentirsi troppo stanca per i volteggi e avere le vertigini dopo una,per lei allora semplice,rondata salto all'indietro. Qualche caduta dalla trave e seri rimproveri dell'allenatore più tardi aveva cominciato a controllarsi,forzandosi a mangiare il necessario,o quasi,per poter continuare lo sport. Tuttavia col passare dei mesi era diventato evidente e fu costretta a lasciare la squadra. Non per questo aveva smesso di allenarsi,Ville,la cosa più vicina ad un amico d'infanzia che le era rimasta,le aveva procurato una copia della chiave della palestra comune,sotto solenne giuramento di non esagerare e di mangiare abbastanza.
Peccato che lei avesse tenuto le dita incrociate.
Tuttavia tra le sue condizioni c'era anche un biglietto da cinquanta al mese che le toglieva ogni scrupolo: le sue raccomandazioni erano solo un modo di pararsi il culo con se stesso in caso si fosse rotta l'osso del collo. Per inciso di ossa ne aveva rotte sei,ma era sempre riuscita a ripulire,chiudere e recarsi autonomamente in ospedale. Grazie a un tassista-fattone che non faceva mai troppe domande.
In ogni caso non c'era più ragione di preoccuparsi,aveva superato da sola i suoi problemi col cibo arrivando ad una tregua,autorizzazione dell'allenatore o meno voleva continuare ad allenarsi e stare in equilibrio su dieci centimetri di legno era dannatamente difficile dopo un digiuno di tre giorni.
Grazie al sito della società sportiva riusciva a tener traccia dei nuovi esercizi in modo da poter continuare a seguire il programma a modo suo,anche se con qualche danno collaterale in più,tuttavia incolpando la sua (inesistente o artefatta) goffaggine,non voleva insultare l'intelligenza di infermieri e medici,perciò si dava da fare per inciampare o rovesciare qualcosa ogni tanto,oppure accampando scuse equamente improbabili nonostante,o proprio a causa,dell'eccessivo ricorso alla fantasia. Non aveva mai avuto incidenti domestici nè rovesciato o rotto una caraffa in tutta la sua vita,anche se sotto l'effetto delle medicine ci era andata molto vicino,perciò le riusciva "complicato" entrare nel personaggio.
Ma continuava a farla franca.
Perciò le alternative erano due: o se ne fregavano altamente come tutti gli altri,o portare una parrucca la rendeva una bugiarda migliore. In ogni caso le dava il bonus "pietà" che risparmiava inutili domande e la lasciava andare con fasce,antidolorifici e vuote promesse su come sarebbe stata più attenta in futuro.
In realtà non gliene importava molto,il dolore non la disturbava,le stecche invece si rivelavano una seccatura: fonte di occhiatacce e altre domande durante le sedute settimanali,nonché ovvi impedimenti al movimento.
Era anche fin troppo facile.
Guardò l'orologio: ora di cena,pensò con un sorriso. Sua zia aveva seguito rigorosamente il programma:cibo equilibrato come mezzo per stare insieme,chiacchierate vuote davanti a una cioccolata fumante in attesa che si formasse quella sottile pellicola che praticamente tutto il mondo odia in modo da poterla buttare via con una risata condivisa per mettere fine a quell'incontro forzato tra sconosciute con una nota positiva,pillole e formule magiche,per ben 48 ore. Poi era tornata al suo lavoro,lasciando qualche distratto messaggio scarabocchiato sui post-it (scritti dalla segretaria). Dava,ad entrambe,dei punti per averci provato. Peccato che Emma continuasse a sbagliare i trattini sulle t. Un giorno gliel'avrebbe detto. O forse no.
Tolse i teloni e riordinò la stanza alla bell'e meglio,senza alcuna fretta. Un'ora e un quarto dopo scese le scale per apparecchiare per uno,non per se stessa,e cominciare a lavare i piatti (del pranzo). Non aveva un vero e proprio problema col cibo,almeno non su pianta stabile,ma sentiva il mangiare come un peso,un'attività sgradita,che potendo preferiva evitare. Stava proprio finendo di lavare la pentola quando sentì sbattere la porta d'entrata. "Volevo aspettarti ma avevo troppa fame…" disse con un sorriso finto sano da pubblicità del dentifricio,occhi brillanti e odiose tenere fossette. "Ma ti ho tenuto qualcosa in caldo" aggiunse indicando un piatto palesemente vuoto ma che aveva coperto con un asciugamano per dare il bonus "impegno nel mantenere un minimo di apparenze".
"Davvero? Grazie ma ho già mangiato,vado a letto presto oggi,sono distrutta…" disse distrattamente togliendosi giacca e scarpe,impaziente di dirigersi al piano di sopra e poggiando la ventiquattro ore sul tavolino del soggiorno immacolato. La sentì imboccare le scale e cominciò il conto alla rovescia. Dieci…tre…due…uno.
"Ah,ho ridipinto la stanza oggi." disse con tono casuale (in realtà perfettamente calibrato,nel quotidiano se la cavava meglio con le bugie) a voce abbastanza alta per essere sentita al secondo piano.
Silenzio. Sentì un colpo di tosse,la cicca (quella da masticare,non la sigaretta: aveva smesso di fumare da tre settimane ed era passata dalla dipendenza da nicotina a quella da caramelle alla liquirizia e gomme alla menta,un grande progresso per l'alito,questo è sicuro) doveva esserle andata di traverso. Intravedeva la figura flessuosa della…. sconosciuta? tutrice? zia?…. donna è più neutrale.
…della donna bloccarsi sugli scalini,ne mancavano esattamente quattro per raggiungere il piano superiore,con un piede a mezz'aria.
"Ma… è meraviglioso!" esclamò attonita dopo quasi venti secondi di silenzio stampa. In sua difesa quello era,in tutto e per tutto,un evento eccezionale: fino all'anno prima non aveva nemmeno disfatto i bagagli,tirando fuori solo qualche abito e,ovviamente i suoi body.
Da piccola era nell'assurda convinzione che i suoi genitori sarebbero tornati. In seguito come segno di protesta per averla mandata in collegio,dal quale era riuscita a farsi cacciare in sole sei settimane. Alla fine aveva rinunciato ai suoi tentativi per attirare l'attenzione,si rivelavano nel migliore dei casi infruttuosi e nel peggiore controproducenti. Ma di questo la zia non sapeva nulla fino a quando,in una seduta comune,non se l'era lasciato accidentalmente scappare. Allora non capiva che l'implicita regola era: "fai quello che ti pare,basta che non ti fai beccare".
"Se l'avessi saputo ti avrei aiutata" aggiunse poco convinta.
Come no. "Doveva essere una sorpresa,non preoccuparti. Ho scelto un bel colore acceso." Tradotto in "ora brilla al buio ma è quello che volevate".
"La dottoressa Parker ne sarà molto felice"
"Non ci avevo pensato…beh,lo saprò domani!"
Quasi dieci frasi,il record della settimana. E anche stasera il teatrino poteva chiudere i battenti,orgoglioso della migliorata interpretazione dei protagonisti,migliorati considerevolmente dopo ben centosessantatre repliche.
Guardò l'orologio: le undici e un quarto,avrebbe aspettato altri dieci minuti e poi sarebbe sgattaiolata dalla finestra,tanto per mantenere un minimo di facciata con i vicini e di correttezza per la zia. Un minimo di discrezione era necessario,uscire dalla porta principale a mezzanotte mandava un certo messaggio e avrebbe attirato pessime critiche sulle capacità genitoriali di Harriet.
Mentre una nipote ribelle che decideva di scalare il melograno e darsi alla macchia nel buio era unicamente colpa della sciagurata in questione e non della povera anima pia che l'aveva presa in casa sua.
Rise,in quel quartiere c'era proprio qualcosa che non andava. Forse erano aria e acqua suburbana a bloccare quel luogo congelato nel secolo scorso e convinto che i problemi dovessero essere ignorati e nascosti,facciate da casa delle bambole con dentro la famiglia perfetta: marito adultero,madre isterica,figlia troia e figlio fumatore di erba con l'hobby di tagliarsi i polsi. Tuttavia tutto quel marcio era accuratamente nascosto dietro a pareti écru e giardini curati,chiuso in cassetti nascosti dei tavoli di mogano e ripulito in occasione del barbecue della domenica,o meglio ammassato sotto il tappeto persiano,quello che non si può calpestare perché cimelio di famiglia e che prontamente occupa l'intero soggiorno costringendo i bambini a camminare in punta di piedi lungo il muro per aggirarlo mentre gli ospiti lo calpestano con le scarpe piene di fango,ignari che sotto di loro giace sporcizia di ben altra portata.
La faceva ridere tutta quella pagliacciata,uno spettacolo di casupole tutte uguali e personaggi stereotipati.
Per essere un'ex "clinicamente depressa" rideva e sorrideva moltissimo pensò.
"Clinicamente"… Era una parola a doppio taglio,da una parte ti evitava la classificazione di classica adolescente frignona,dall'altra attestava che avevi davvero un problema. Che tutti di comune accordo avessero deciso che fosse causato unicamente da una carenza di dopamina,un malfunzionamento di qualche ghiandola endocrina dal nome impronunciabile,l'aveva insieme sollevata e sorpresa.
L'avevano etichettato come un problema essenzialmente fisico e la consideravano un misto tra la cuginetta che taglia le code alle lucertole ma con la quale sei obbligato a giocare lo stesso e un'animale incomprensibile ed esotico da osservare,o ignorare,a debita distanza. Ciò contribuiva a rendere la sua vita "sociale" un'insieme contrastante di occhiatacce e timidi sorrisi pieni di pietà,una delle tante,forse troppe,cose che odiava. Si promise che un giorno avrebbe fatto una lista di tutte le cose che per lei meritavano di finire risucchiate in un buco nero.
Ma non in quel momento: c'era un posto in cui doveva assolutamente recarsi.
Tanta roba! I like it
RispondiEliminaGrazie :)
Elimina- Wyrd